L’ospite di questa intervista de L’imprenditoriale è Emanuele Farneti: noto giornalista italiano che ha collaborato per diverse realtà giornalistiche e media company. Da GQ-Italia alla Gazzetta dello sport e Canale 5, fino ad arrivare alla direzione di Vogue Italia nel 2017 e a quella di “d Repubblica” dal novembre 2021.
In questa chiacchierata abbiamo affrontato temi personali, come la formazione e le esperienze che lo hanno portato a diventare direttore di due autorevoli giornali del mondo della moda e temi più attuali come la responsabilità di usare questi canali per provare a raccontare qualcosa del mondo che ci circonda.
La moda è la seconda potenza economica del paese, un settore vasto e composto di tanti brand e players che stanno lavorando per essere sempre più sostenibili e democratici, disegnando un percorso politico a tutti gli effetti.
Emanuele ci racconta di come in questo mondo l’editoria abbia un ruolo fondamentale essendo perno e allo stesso tempo megafono di una realtà così complessa e ricca di significato: la moda è a tutti gli effetti un modo che abbiamo per esprimere noi stessi, per mostrarci agli occhi degli altri e per condividere ciò che pensiamo.
Proprio per questo ha ritenuto importante, soprattutto in un presente difficile come quello di oggi e degli scorsi anni, scegliere di raccontare un punto di vista sul mondo, assumendo una direzione politica a tutti gli effetti nei contenuti e nel processo.
Di seguito riportiamo un estratto dell’intervista:
Tra le tante esperienze giornalistiche che hai fatto quando hai capito che la moda era la tua strada e come sei riuscito a conciliare la tua formazione giuridica con la profondità umanistica richiesta nel tuo lavoro?
La mia famiglia era per metà impegnata nel mondo del diritto e per l’altra metà nel mondo del giornalismo. I miei genitori sono entrambi giornalisti e dunque sono stato immerso in questo mondo fin da bambino. Dopo la laurea in giurisprudenza la carriera giornalistica era già avviata e lì ho scelto che strada intraprendere, la moda arriva solo dopo.
“Mi considero prima di tutto un giornalista che ha avuto la fortuna di occuparsi di tante cose diverse tra cui la moda. Sono più un giornalista che una persona di moda, cosa che ha dei pro e dei contro soprattutto se dirigi Vogue Italia, ma abbiamo cercato di valorizzare i pro”.
Se si parla di moda si fa riferimento ad un settore con tantissime professioni e realtà, ma nello specifico come l’editoria ha un impatto sul settore della moda?
Quando sono entrato in Vogue Italia mi è stato spiegato che quello era un “giornale di sistema” ovvero parte integrante di un mondo composto da vari protagonisti, che ha permesso alla moda italiana di diventare la seconda industria del paese oltre che assumere un ruolo fondamentale nel mondo.
“Il logo di Giorgio Armani usa più o meno lo stesso font di Vogue Italia perché nasce nello studio di L’Uomo Vogue insieme all’allora direttore creativo. Questo per dire che la moda è un industria composta da tanti players che sono tra loro interdipendenti. È effettivamente vero che l’editoria di moda, in modo particolare Vogue Italia e Vogue Francia son state insieme perno e megafono che hanno permesso ai designer emergenti di conquistare un panorama internazionale prima che esistessero il web e i social media”.
Quando per la prima volta ho letto Vogue Italia ho pensato: “questo giornale parla di tutto tranne che di moda”. In questa affermazione credo si racchiuda bene quello che anche il mondo del giornalismo ti riconosce: l’essere capace di andare oltre le aspettative utilizzando la moda per esprimere un punto di vista sul mondo.
Ho imparato che la moda è un linguaggio: è un modo che abbiamo per presentarci agli altri e per lanciare dei messaggi che possono essere più o meno evidenti. Quello che abbiamo fatto in questi anni è stato provare ad usare la voce di un media importante (come Vogue Italia) per dire delle cose, lasciandoci inevitabilmente condizionare dal contesto e da ciò che succedeva.
“Ciò che è successo, in modo particolare negli ultimi due anni, ci ha posto di fronte ad un bivio: cosa fai dal momento in cui da un giorno all’altro tutto il mondo viene chiuso in casa e tu ti occupi di moda? Quello che abbiamo fatto noi è stato scegliere di seguire le orme di Franca Sozzani, che per la prima volta nella storia ha preso posizioni politiche forti, tentando di dare il nostro contributo in questa direzione e portando il nostro punto di vista sul mondo”.
“Nei primi giorni di lock-down è stato significativo mandare in stampa una copertina completamente bianca per la prima volta in oltre 130 anni di storia di Vogue. Credevamo che il silenzio fosse la risposta migliore a tutto ciò che stava succedendo e questa cosa è stata capita ed è diventata un simbolo del fatto che anche un giornale di moda possa assumere un punto di vista politico a seconda dei tempi in cui gli è dato di vivere”.
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Questo concetto viene ripreso anche sulla prima copertina del nuovo “d Repubblica” dove si legge “FASHION IS POLITICS”. Nella società di oggi sembra quasi ci sia una sorta di resistenza da parte dei giornali, di aziende o di altre realtà ad assumersi la responsabilità di un punto di vista su ciò che ci circonda cosa che invece la nostra generazione chiede a gran voce.
La moda è nata come un mondo per pochi, completamente non inclusivo e non democratico, quasi agli antipodi dei valori che riconosciamo importanti ora. Poi per una concomitanza di tanti fattori, tra cui sicuramente l’arrivo dei social media, dove il proprio punto di vista è messo costantemente in discussione e dove si è sempre in un rapporto con i propri interlocutori, hanno portato la moda a fare i conti con se stessa e a intraprendere un percorso di trasformazione radicale che la vuole portare verso l’inclusività, la diversità, la democraticità e la sostenibilità.
“In questo momento e già da qualche anno per tutti gli operatori di settore e brand la sfida è diventata come mettere in discussione i propri valori e diventare più inclusivi e democratici. Questo ci porta a dire che la moda è politica. Ovviamente poi c’è chi lo fa in modo più esplicito, come Maria Grazia Chiuri, Valentino, Prada e tanti altri e chi meno, ma ad oggi è difficile per un brand non essere politico”.
Questo ha dei riflessi anche sul mondo della comunicazione. Provo a lanciare una provocazione: la nostra generazione non legge molto i giornali e tende ad informarsi sui social. Questo perché da un lato sono uno strumento comodo e veloce e dall’altro perché su queste piattaforme c’è una tendenza ad affermare un punto di vista, che però rischia di diventare superficiale non essendoci tempo e spazio per approfondire. I giornali invece, che presuppongono l’attenzione e la possibilità di approfondire a volte mancano di avere una posizione… che ne pensi?
“Guardare 2 volte al girono l’home page di un quotidiano online o utilizzare Facebook per informarci non è come leggere un quotidiano. In termini di comprensione della complessità del mondo non è la stessa cosa. Leggere un giornale significa conoscere una visione del mondo costruita da professionisti retribuiti che danno dei pesi alle notizie e suggeriscono su cosa porre l’attenzione, cercano di dare spiegazioni, aggiungono commenti e punti di vista e quindi restituiscono una visione molto più complessa di quella che possono dare i social”.
“inoltre quello che si trova sui social è di solito molto vicino a quello che già ci piace, a ciò in cui crediamo (grazie anche all’aiuto degli algoritmi), mentre leggere un giornale, soprattutto se più di uno e se di diverso orientamento politico, ti permette di essere raggiunto da molte cose che non sapevi e che ti possono interessare. Quindi non possiamo credere di essere informati solo guardando i social. Informarsi e costruirsi un’opinione richiede fatica”.
La moda è davvero sostenibile? Proviamo a fare una riflessione estendendo al massimo il concetto di sostenibilità.
La moda è nata per essere il contrario della sostenibilità: alimenta un costante bisogno di cose di cui in realtà non necessitiamo. Va detto però che tutti i brand stanno lavorando per ridurre l’impatto negativo che la moda ha sul mondo e si stanno impegnando usando la loro voce per sostenere comportamenti più virtuosi anche rispetto ai consumatori.
“Dal lato del consumatore è facile gridare all’immoralità, però anche la corsa al fast-fashion non aiuta ad andare nella direzione della sostenibilità, quindi anche in questo dobbiamo cercare di essere coerenti e non alimentare un meccanismo che è insostenibile”.
Se potessi parlare all’Emanuele Farneti ventenne cosa gli diresti?
“Fai l’avvocato”. (ironico)
“Sono stato fortunato a fare cose che mi sono piaciute tantissimo e a conoscere tante persone stimolanti. È chiaro però che sarebbe stato difficile prevedere il futuro del giornalismo prima dell’arrivo della disruption digitale: questo settore è quotidianamente colpito da trasformazioni radicali, che a volte mettono anche a rischio la sopravvivenza di pezzi di questo mondo, e si ha sempre la sensazione di essere indietro”.
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