Le quote di genere più comunemente note con il termine “quote rosa” vengono definite dall’Enciclopedia Treccani come “provvedimento, in genere temporaneo, teso a equilibrare la presenza di uomini e donne nelle sedi decisionali (consigli di amministrazione, sedi istituzionali elettive e così via) effettuato introducendo obbligatoriamente un certo numero di presenze femminili”.
In sostanza esse introducono l’obbligo normativo di riservare una soglia minima di seggi in posizioni apicali a favore del genere meno rappresentato, attualmente quello femminile (da qui l’attributo “rosa”), con il fine di consentire alle donne di sfondare il cosiddetto glass ceiling ovvero la barriera invisibile che impedisce loro di ricoprire incarichi decisionali di rilievo.
Le quote di genere sono state introdotte nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate italiane (e successivamente anche nei cda delle società a controllo pubblico) dalla legge 120/2011, detta legge Golfo-Mosca, la quale ha imposto una presenza femminile nei vertici aziendali pari al 20% dei membri eletti, successivamente innalzata al 33% nel 2015 e al 40% nel 2019.
Tale misura nasce come rimedio temporaneo di una problematica strutturale del nostro paese della durata di 3 mandati, estesa nel 2020 a 6 mandati (ovvero 18 anni).
Ma era davvero necessario un intervento legislativo per garantire alle donne un’adeguata rappresentazione nei vertici aziendali? I numeri dicono di sì
I dati EIGE evidenziano chiaramente che prima dell’introduzione della legge Golfo-Mosca la crescita percentuale italiana di donne nei board, avviata a partire dal 2003, era troppo lenta rispetto allo standard europeo. Nel 2011 la quota femminile dei board delle società quotate italiane raggiungeva, infatti, livelli (circa il 6%) di molto inferiori rispetto al livello medio europeo (quasi il 14%).
In seguito all’adozione della legge (2012) invece la presenza femminile nei corporate board è aumentata significativamente (raggiungendo quasi il 39% nel 2021), tanto che oggi l’Italia si presenta come uno dei paesi europei più virtuosi in termini di rappresentazione femminile nei Cda (vedi figure 2 e 3).
Ma questo risultato è davvero frutto della legge Golfo-Mosca (e quindi delle quote di genere)? Anche in questo caso i numeri dicono di sì.
I dati dimostrano che la quota di donne negli organi amministrativi è rimasta pressoché stabile nel tempo o è cresciuta in misura modesta nei settori senza vincoli sulla composizione di genere ossia società private e banche. Al contrario, la rappresentazione femminile è aumentata considerevolmente nelle società quotate e nelle società a controllo pubblico, destinatarie della legge, passando rispettivamente dai valori del 2011 di 7 e 11% (precedenti l’introduzione della legge) ai valori di 37 e 25% del 2019.
Lo stesso esito non poteva essere raggiunto con dei provvedimenti più soft come semplici raccomandazioni o incentivi? No, o perlomeno non un risultato così significativo.
Dagli esiti delle diverse policy europee si evince che l’empowerment femminile cresce quando le iniziative di genere vengono condotte con particolare incidenza in termini di obbligatorietà. La figura 5 mostra, infatti, che a partire da un livello simile di rappresentanza femminile del 2011 (13,8%) la percentuale di donne nei consigli di amministrazione è aumentata del 23% nel gruppo di paesi che hanno adottato provvedimenti legislativi, del 17,3% nei paesi che hanno attuato misure soft e solo del 2,8% in quelli che non hanno introdotto nessuna misura.
Ciò conferma quindi che la soluzione migliore per rompere lo squilibrio delle rappresentanze sia l’adozione di un provvedimento legislativo vincolante come la legge Golfo-Mosca.
Appurato il successo della normativa in termini di presenza femminile nei Cda, sorge spontaneo chiedersi se essa abbia avuto esiti altrettanto positivi in termini di rilevanza dei ruoli ricoperti e di gender pay gap. Questa volta la risposta è no.
Nonostante l’accesso ai Cda sia ora meno complesso, alle donne membre dei board continuano ad essere assegnati prevalentemente ruoli di amministratrici indipendenti ossia ruoli non esecutivi di controllo dell’operato del management, mentre solo il 2-3% delle donne occupa le posizioni di AD o Presidente.
Nemmeno in termini di retribuzione la normativa ha contribuito a generare cambiamenti degni di nota, come comprava il fatto che il differenziale salariale tra le donne impiegate in aziende quotate e le donne impiegate in aziende non quotate è rimasto pressoché costante nel tempo (vedi figura 7).
Si può quindi concludere che le quote di genere sono riuscite a creare una crepa nell’insuperabile soffitto di cristallo, ma ancora troppo piccola per infrangerlo.
Fonti
- “La partecipazione femminile negli organi di amministrazione e controllo delle società italiane” – Rapporto dell’Osservatorio interistituzionale, 8 marzo 2021
- Claudia Villante, Davide Barbieri – “L’empowerment passa per le quote in azienda”, in InGenere, 21/06/2022: https://www.ingenere.it/articoli/empowerment-passa-per-quote-azienda
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