Sempre più spesso si sentono storie di persone che decidono di dare un taglio netto al passato e operano cambiamenti drastici nel loro presente professionale e personale. Non è un caso sporadico, ma un fenomeno in crescita con numeri impressionanti: nel 2021 in Italia è stato registrato un boom di startup innovative (+40%) e di imprese individuali (i freelancer +34%) rappresentando il 93% delle imprese costituite nell’anno.
In altri termini, l’anno scorso ogni giorno abbiamo avuto oltre 700 persone che hanno aperto una partita IVA o una piccola società. Dietro questi numeri ci sono migliaia di storie, molto spesso di donne che hanno dovuto lasciare il propri lavoro per dedicarsi a persone fragili, magari alle loro famiglie, e hanno dovuto ridisegnare i confini delle loro ambizioni. Ma c’è di più.
Stereotipi e carriere dorate
Fino a qualche decennio fa, il mondo del lavoro in particolare per i laureati, era visto come un firmamento nel quale proiettarsi viaggiando in Maserati e con stipendi dai sette zeri in su.
Era sufficiente, così si diceva, fare qualche anno di “gavetta”, trovare il giusto giro di capi e legarsi a team vincenti per decollare. Se eri un giovane ingegnere o economista (uomo, in special modo) il gioco era fatto.
Non c’era bisogno di conoscere fluentemente almeno due lingue, di aver fatto esperienze internazionali, di avere competenze digitali avanzate né referenze di alto livello.
Con l’arrivo della trasformazione digitale agli inizi del 2000, alcuni, ormai stufi delle solite dinamiche professionali e consapevoli di aver ottenuto il massimo dal lavoro, hanno deciso di cambiare tutto. Qualcuno ha aperto un ristorante, altri piccole società di consulenza per lavorare con i clienti del vecchio impiego, altri ancora si sono reinventati attraverso attività più eclettiche come lo Yoga o il life coaching. Per farla breve: nuove prospettive stimolanti (e redditizie).
Gli anni 90 e i suoi figli.
La nostra generazione, quella dei Millennials (nati tra il 1984 al 1996 circa, ndr), ha ereditato un modello di carriera e, conseguentemente, di successo che ha cominciato a perdere potenza sotto i colpi di una serie di fenomeni che si sono susseguiti negli ultimi tre decenni: prima la bolla dot.com che ha dato l’avvio ad una nuova era, quella di internet e delle big tech; poi la crisi finanziaria del 2008; e infine la crisi economica provocata dalla pandemia del 2020 alla quale, come se non bastasse, si è aggiunta la guerra voluta da Putin. Tutto questo ha trasformato la società, aprendo la possibilità di vivere in un villaggio globale grazie alle tecnologie digitali e, contemporaneamente, mettendo in crisi la stabilità e la linearità dei cicli delle nostre economie e delle prospettive sul futuro.
L’effetto è stato che i valori di questa generazione sono mutati: le prospettive future perdono ormai di senso, schiacchiate e assottigliate dall’instabilità contemporanea, lasciando il posto all’unica cosa che ormai conta: l’oggi, il “qui ed ora”.
È infatti proprio nell’oggi che si costruisce, un’esperienza alla volta, un domani fatto di presenza, condivisione, emozioni ed autenticità.
Le grandi dimissioni.
Ebbene, dalla primavera del 2021 ha preso forma un fenomeno sempre più ampio di millennials che lasciano il loro lavoro stabile per dedicarsi a progetti completamente nuovi, o magari per “mettersi in proprio”.
Gli Stati Uniti sono stati i primi a vivere questa “diaspora” volontaria, con una media di 4 milioni di dimissioni al mese. Un’inchiesta di Ypulse ha rivelato che nel 2021 in Europa Occidentale il 20% dei Millennials ha lasciato il proprio posto di lavoro. E, come in Usa, anche nel Vecchio Continente le cause sono riconducibili sia alla ricerca di migliori opportunità e paghe più alte, sia a una maggiore attenzione alla tutela della propria salute mentale e alla ricerca di un “work-life balance” più sostenibile.
In Italia nell’estate 2021 le dimissioni volontarie hanno superato la quota di mezzo milione. In precedenza non si era andati oltre le 436.754 dell’ultimo trimestre del 2019 (fonte: dati INPS).
I possibili perché.
La lunga pausa di lockdown che ci ha visti fisicamente fermi, ci ha fatto
mentalmente viaggiare su frequenze lunghe che spesso abbiamo ignorato nella frenesia del quotidiano. Ci siamo osservati dall’esterno andando oltre il rumore di un circuito saturo di alte aspettative e falsi miti.
Abbiamo riconsiderato la nostra vita in una nuova luce che dia importanza alle cose semplici e veramente importanti: la salute, gli affetti, le persone vere, la natura. Questo processo ha inevitabilmente colpito anche la cultura del lavoro, che viene sempre più valutata in relazione al progetto di vita di ogni individuo. Disegnare dei confini, dormire bene, dare priorità alle persone care, concedersi dei giorni di riposo non sono più opzioni, ma imperativi vitali. In quest’ottica, ad esempio, i concetti di rischio e di fallimento assumono una concezione fortemente positiva in virtù della resilienza che comportano: imparare a rialzarsi e farlo sempre più velocemente, rende più forti e flessibili.
E quindi?
Anche senza avere la presunzione di impartire lezioni o la pretesa di cercare “il buono” a tutti i costi, è evidente come, soprattutto per le nuove generazioni, sia diventato assolutamente imprescindibile cercare il proprio “perchè” in questo mondo.
È proprio sotto questa luce che bisogna considerare le testimonianze, come quella riportata, che segnalano, più che una visione allucinata della realtà, l’inizio di un nuovo ciclo, di un rinnovato periodo storico in cui è di prima importanza riflettere sulla propria esistenza in un ecosistema il cui razionale non è più apparente e collettivo, ma celato e individuale, e che spinge ad interrogarsi sul senso di tanti sacrifici e sull’importanza di “lasciare andare”.
È il momento giusto per darsi la spinta, darsi da fare da soli e cercare di meglio. D’altronde, con un briciolo di coraggio e consapevolezza di sé, tutto si può fare.
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