“La soddisfazione è aver creato un prodotto da un grande impatto etico, valore aggiunto che coinvolge tutte le attività create dalla nostra famiglia. Abbiamo tanta volontà di servire il mondo tramite i servizi resi disponibili dalle nostre imprese e dal suolo italiano su cui operiamo”
- Lei ha citato un importante concetto che io definirei come DO UT DES: il territorio come fonte di valore, oltre a che base da cui poi si crea del valore. Ha citato quanto l’Environment sia importante per l’azienda, motivo per cui è fondamentale valorizzare il territorio in cui si opera. Questo rappresenta il minimo riconoscimento e si può dire “risarcimento” che si può attuare nei confronti dell’ambiente, per “ringraziarlo”. Da qui la metafora del famoso detto latino “DO UT DES”. Per questo vorrei chiederle quali sono le caratteristiche del Veneto e del Trentino e in più in generale del territorio italiano che secondo lei rendono il nostro territorio unico? Quali sono le risorse che secondo lei al giorno d’oggi andrebbero più sfruttate?
“Partiamo dal concetto che il territorio italiano nel suo complesso ha una caratteristica fondamentale intrinseca che lo ha contraddistinto nell’ambito industriale: il forte senso di identità. Gli imprenditori hanno forte legame con il territorio che non rappresenta solo luogo nel quale cresciamo, ma anche la fabbrica. Per questo gli imprenditori hanno il dovere e obbligo morale di mantenere il più possibile gli investimenti all’interno dei propri confini nazionali dato che, se l’impresa cresce, è anche opera del territorio che ha creduto nell’impresa tanto quanto l’imprenditore ha creduto nel territorio. Le risorse non devono essere “sfruttate” ma “valorizzate” attraverso la nostra creatività. Il lavoro che portiamo avanti dentro le aziende non è solo funzionale e innovativo, ma anche bello. La nostra concezione del “bello” e il modo con cui plasmiamo i nostri prodotti, è un valore intrinseco che nessun altro al mondo potrà emulare, dal momento che è frutto in parte anche delle caratteristiche culturali che rendono l’Italia un paese unico a livello internazionale. Per fortuna gli imprenditori si stanno rendendo conto di quanto si perda dal punto di vista culturale a portare il Made in Italy fuori dal bel paese.”
- Nell’economia manageriale spesso si discute riguardo alle medio-imprese “best in class”: ci sono teorie che sostengono che la media impresa sia destinata a fallire, dato che rappresenta solo uno step evolutivo che porta alla creazione della grande impresa; c’è chi invece sostiene che la media impresa non sia una struttura intermedia, ma una realtà che può eccellere con la sua media grandezza. L’Italia si caratterizza per l’esistenza di PMI, che spesso tendono a non evolversi e restare ancorate al territorio in cui nascono. Quali tra le due teorie trova più affine al suo pensiero? Pensa che il Made in Italy sia destinato a restare nella piccola realtà in cui si colloca, caratterizzato da piccole reti e prodotti “di nicchia” oppure deve assecondare necessità di innovarsi ed agire su larga scala internazionale?
“Credo che vada fatta una riflessione su quello che significhi PMI: la PMI per come la definiamo in Italia, non analoga alla definizione che si attribuisce nel resto del mondo, che vedrebbe le nostre PMI italiane considerate come microimprese. Negli anni ’70 si diceva il piccolo è bello, ma sono del parere che oggi il piccolo non è bello e soprattutto non è competitivo. Io credo che l’Italia stia vivendo un periodo nel quale sta ancora cavalcando l’onda di quello che è il concetto di made in Italy espresso negli anni precedenti. Ora è necessario fare un passo in più ed evolversi. Bisogna abbracciare un cambiamento culturale: gli imprenditori dovrebbero incominciare a fare rete e condividere le opportunità tra competitors, che possono essere fonte di opportunità per poi competere davvero con i colossi internazionali. Solo facendo massa critica si può sopravvivere nella giungla dei mercati internazionali e noi abbiamo la necessità di crescere dal punto di vista internazionale, se no rischia che le nostre imprese siano cannibalizzate da quelle più grandi e strutturate. In Italia noi imprenditori, per quanto siamo in concorrenza tra di noi, dobbiamo identificarci come alleati e non competitors. Oggi d’altronde servono molti più investimenti rispetto a ieri: un buon obiettivo consisterebbe nel condividere, anche in piccola misura, competenze e finanze. Se rimaniamo sottodimensionati non consegneremo un futuro industriale alle prossime generazioni.”
- Tra i vari modelli imprenditoriali, in Italia le imprese tendono a prediligere un modello di “governo famigliare”. Questo particolare modello di governance possiede molti pro: tramandare le varie competenze di generazioni in generazioni, tenere un basso costo dovuto all’assunzione di pochi specialisti fuori l’ambiente famigliare, celere velocità di presa di decisioni dovuta all’informalità e comunione di pensiero che caratterizza il circolo famigliare. Tuttavia comporta anche degli svantaggi: il rischio di tenere nel Management Board componenti famigliari che tuttavia non dispongono di competenze specifiche per prendere decisioni, non aprirsi alle innovazioni che possono derivare dall’inserimento nel CDA di soci esterni e appartenenti ad altri ambiti. Cosa pensa lei del modus operandi proprio dell’impresa famigliare? Secondo la sua opinione ed esperienza personale, sono presenti più pro o più contro?
Io credo che non bisogni demonizzare quella che è la nostra storia e le nostre origini. L’Italia si è fondata su solide basi che vedono la famiglia al centro dell’impresa, ma nel 2021 bisogna fare un passo in più ed avere più coraggio. Oggi è necessario avere competenze sempre più skillate e circondarsi di persone che sappiano di più dell’imprenditore. Oggi il buon imprenditore ha le capacità per dare una giusta vision all’azienda, per circondarsi di giusti managers e per fornire delle idee chiare su cui è l’assetto dell’azienda. Entrare nell’azienda non può essere ereditario e dettato su cognome, ma in base alle conoscenze acquisite. Uno step successivo è valutare la possibilità di aprirsi a mercati di capitali e fonti di investimento. Un imprenditore può essere comunque proprietario del 60% – 70% ma avere un maggior cash flow derivante dalla sua espansione.
- Ha mai pensato di entrare nell’ambiente dei Business Angels? In quale settori sarebbe più propenso ad investire?
No, non ci ho mai pensato. In primis per il fatto che, essendo concentrato su quella che è la mia PMI innovativa ho io a mia volta che ho cercato capitali nel mercato, al di là della mia schiera famigliare. Non faccio l’investitore di professione o meglio in questo momento sono ancora giovane per poter ambire e investire in una determinata quantità di capitali. Non mi sento ancora pronto ad investire capitali in un settore che non conosco e penso che chi fa il Business Angel debba avere una visione completa di certe dinamiche, dettate dal tempo ed esperienza. È importante mettere a disposizione oltre che capitali, anche la competenza. Comunque, è un dovere e responsabilità mettere a disposizione i propri capitali, incubando all’intera dell’industria idee riguardanti il proprio settore merceologico.
- A lezione ha spiegato agli studenti che un problema dell’Italia è aver preso il modello finanziario nord-americano senza adattarlo a quella che è la diversa configurazione finanziaria del nostro paese. Da dove bisognerebbe partire per creare un modello finanziario adatto all’Italia?
Non dobbiamo importare forzatamente modelli diversi da quelli che sono plasmabili con la nostra identità. Il modello americano di venture capital non funziona bene nei nostri territori e dobbiamo trovarne uno che si traduca bene a livello identitario italiano, che comprenda ad esempio la manifattura. Parallelamente sarà necessario sfruttare le potenzialità e competenze consolidate nei vari settori merceologici.
- Secondo lei l’Italia riuscirà mai ad uscire dal retaggio culturale che tende a penalizzarla in una scalata verso l’internalizzazione? Io personalmente penso che ci sia tutt’oggi troppa “personalizzazione dell’impresa”.
La maggior parte degli imprenditori pensa che sia più proficuo essere proprietario esclusivi di una azienda piccola piuttosto che essere socio per una minor percentuale. Il problema di molte aziende non è il fatto che non abbiano le risorse per portare avanti questo step evolutivo, ma che chi gestisce non vuole cedere l’esclusività decisionale della propria azienda, al costo di non permetterle un ampio sviluppo. Quando si arriverà ad avere una rotta che porta all’innovazione piuttosto a una costante auto-distruzione? Crede che ci sarà un cambiamento di mentalità?
I giovani non devono perdere la filiera del valore, che consente non solo nel creare valore ma anche nel distribuire il valore all’interno del paese.
- Che riflessioni ha posto in essere il Covid-19 per lei e il suo mindset aziendale? Ha portato a uno slancio verso l’innovazione?
In verità il Covid-19 non ci ha fornito grandi strumenti o letture innovative. Abbiamo sempre fatto dell’innovazione la nostra ossessione. Il Covid-19 ha posto le basi per il consolidamento del nostro posizionamento nel mercato. Molte aziende che non hanno innovato, in momenti di grande difficoltà hanno sofferto particolarmente. La nostra continua ricerca di quello che è il prodotto, ci ha fatto avanzare e per questo stiamo raddoppiando in Nplus S.r.l il fatturato anno su anno. Comunque, i periodi di incertezza non piacciono a nessuno. Bisogna preoccuparsi quando va bene e le acque sembrano -in superficie- calme.
- Problema dell’ecosistema imprenditoriale: c’è una percentuale bassissima di giovani che si lanciano nel mondo d’impresa. Come si potrebbe educare i giovani a non avere paura e lanciarsi?
“Non esiste una risposta. Si possono dare consigli e formulare supposizioni. Le risposte esistono all’interno della coscienza di ognuno di noi. Principalmente al sud le imprese sono poche e fanno molta difficoltà a sopravvivere. Nel mezzogiorno ci sono tantissimi ragazzi volenterosi, che tendono a salire al nord piuttosto che provare a costruire valore nelle zone in cui sono cresciuti. Il Sud è stato abbandonato. Per stimolare i ragazzi è necessario cambiare il paradigma del fallimento: in Italia chi fallisce viene visto come l’appestato. Nel fallimento è presente un bagaglio esperienziale molto importante che ci fortifica e mette a nostra disposizione uno strumento in più che non è posseduto da chi non ha mai fallito. In Italia una startup su tre non riesce a superare i primi cinque anni di vita. Certamente fare impresa è un’impresa. Il fallimento è un percorso comune a tutti noi, può sembrare imbarazzante ma dobbiamo affrontarlo e superarlo. È importante imparare anche dai fallimenti dei grandi imprenditori di tutto il mondo. Quindi posso concludere affermando che fallire è parte integrante di un percorso di vita che dobbiamo conservare gelosamente. “
Ad Maiora,
Giordano & Valentina.
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