Ambiente e Unione Europea

Futuro. Quante volte sentiamo parlare di futuro in relazione a problemi e pericoli imminenti? Quante volte scegliamo deliberatamente di rimandare ad un tempo indefinito la risoluzione di questioni che meriterebbero una risposta “ora” e non “dopo”? In un mondo in cui il futuro è domani e il passato era ieri non possiamo permetterci di sprecare il prezioso tempo a nostra disposizione, soprattutto quando in palio c’è la sopravvivenza dell’intera umanità. Volendo essere concreti, questo è il caso del cambiamento climatico e della crisi del sistema ambientale.

A settembre 2020 la Presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen ha tenuto il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione 2020 nella sede del Parlamento europeo, riunito per l’occasione in sessione plenaria. Tra i temi caldi trattati è emersa, in particolare, la questione ambientale, che risultava già allora essere un problema di cui è tangibile l’urgenza e la gravità. I gas serra presenti nell’atmosfera stanno raggiungendo livelli mai registrati prima d’ora: la concentrazione di CO2 supera del 40% 1 il livello registrato agli inizi dell’età industriale. Attualmente la temperatura media mondiale è più alta di 0,85oC rispetto ai livelli della fine del 19° secolo2, ed è per questo che l’Accordo di Parigi sottoscritto dai Paesi membri dell’UE nel 2015 cerca di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Lo scioglimento dei ghiacciai alpini e polari, l’innalzamento delle acque che mette a rischio ogni attività litoranea, la scomparsa di centinaia di ecosistemi sono fenomeni conosciuti e, in parte, in atto da anni: l’intero sistema economico dipende dalla stabilità e dalla prevedibilità dei sistemi naturali, a prescindere dai quali è impensabile qualsiasi “discorso economico”. I fenomeni meteorologici estremi, oltretutto, sono causa di perdite finanziarie che nell’UE, negli ultimi quarant’anni, hanno superato i 487 miliardi di Euro. La stessa Presidente ha asserito che «ciò che è buono per il clima è buono per le imprese ed è buono per tutti noi». Ha pertanto dichiarato che la Commissione europea mira alla riduzione delle emissioni di almeno il 55% (rispetto al 1990) entro il 2030.

Per capire come siamo arrivati a dover porre in essere questi meccanismi di salvaguardia ambientale, occorre fare riferimento al processo storico dell’industrializzazione. A cominciare dal 18° secolo, infatti, l’uomo ha sfruttato le risorse naturali con l’esclusivo obiettivo della crescita economica, non curandosi però del fattore ambientale, relazionandosi all’ambiente come ad una risorsa infinita: non si percepivano le effettive conseguenze del sovrautilizzo delle disponibilità ecologiche; non si conoscevano del tutto gli effetti dell’attività industriale e nemmeno come limitarli: il mondo d’altronde, non ancora globalizzato, era totalmente “a disposizione”. In una posizione diametralmente opposta troviamo, oggi, la cosiddetta industria 5.0 (così denominata dalla stessa Commissione europea) che, consapevole di suddette criticità, punta ad una transizione sempre più verde e digitale, guarda oltre lo scopo unico della produttività e comprende la sua rilevanza nelle interazioni con il sistema-ambiente esterno.

L’ambientalismo come lo intendiamo oggi, benché alcune voci già si fossero levate nel 19° secolo (si pensi ad esempio a A. von Humboldt e ad R.W. Emerson), è un fenomeno sviluppatosi principalmente a partire dal secolo scorso, poiché prima, quando il carbone fungeva da despota dell’economia, la società non era culturalmente in grado di comprendere il nesso tra consumo di combustibili fossili e alterazione climatica e biosistemica. Stupisce di più però che, oggi come allora, il problema sussista ancora e stia diventando sempre più urgente: messo nero su bianco dal Club di Roma nel 1972, viene in parte ancora sottovalutato dai Paesi più sviluppati, da cui ci aspetteremmo un’attenzione maggiore, un comportamento consapevole e ben più complesso di quello che ha visto sorgere la prima e seconda industrializzazione, se si vogliono salvaguardare le precondizioni dei sistemi produttivi ed economici.

In Europa, per fortuna, rispetto ad altri grandi Paesi del mondo le difficoltà si conoscono e si tenta da tempo di limitare i danni attraverso riforme strutturali come il Green Deal, che consentirà all’UE di raggiungere una condizione di neutralità climatica entro il 2050. O ancora, nel 2015, la Commissione europea aveva presentato il Piano d’azione dell’UE per un’economia circolare, successivamente modificato e integrato a marzo 2020 con la pubblicazione del nuovo Piano d’azione, che prevede, in sostanza, il prolungamento del ciclo di vita del prodotto. Con il nuovo bilancio pluriennale 2021-2027 si è inoltre stabilito che almeno il 30% dei fondi europei stanziati (in particolare il fondo Next Generation EU) dovrà essere destinato alla lotta al cambiamento climatico. Al fine di garantire una giusta transizione climatica, si è introdotto un meccanismo per una transizione equa con lo scopo di fornire sostegno economico e assistenza alle zone che più necessitano di un supporto per realizzare un’economia a basse emissioni di CO2, e a tal fine saranno mobilitati fino a 90 miliardi di Euro.

È chiaro a tutti ormai che investire nella tutela ambientale favorirebbe la nascita di un nuovo mercato, generando ricchezza e aumentando così anche il tasso di occupazione, assicurando una qualità di vita migliore alle generazioni future. D’altronde Ursula Von Der Leyen sembra esserne pienamente consapevole: «il futuro è nelle nostre mani. E l’Europa sarà ciò che decideremo che sia».

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