Un anno dal ritorno dei talebani a Kabul: intervista a Giuliano Battiston

Nell’agosto del 2021 la notizia del ritorno dei talebani a Kabul aveva monopolizzato le prime pagine dei giornali, ma com’è la situazione in Afghanistan a distanza di un anno da quando si è completato il ritiro dell’esercito statunitense? Ne abbiamo parlato con Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22 e contributor di ISPI, che si dedica all’Afghanistan dal 2008 con viaggi, ricerche e saggi.

Di seguito riportiamo un estratto dell’intervista.

Partiamo con una domanda relativa alla tua esperienza: quando sei stato l’ultima volta in Afghanistan? Hai avuto difficoltà di accesso e permanenza nel paese?

“L’ultimo viaggio è stato nel maggio del 2022 e il prossimo sarà a novembre. Dal 2008 cerco di mantenere una certa continuità e trascorrere almeno tre mesi ogni anno nel Paese. Nel mio ultimo viaggio sono rimasto per un mese, come in genere faccio, e non ho avuto particolari difficoltà ad entrare, come invece mi era accaduto nel novembre 2021, tre mesi dopo la riconquista di Kabul da parte dei talebani: il Paese era isolato, molti confini erano chiusi e c’erano pochi e costosissimi voli disponibili. In quell’occasione ero entrato da Hairatan, al confine con l’Uzbekistan. Ora che il territorio non è più conteso invece si viaggia più facilmente di prima ed è meno rischioso muoversi per il Paese.”

Com’è andato questo primo anno di governo da parte dei talebani? Il nuovo governo è riuscito a costruire una solida base di consenso popolare?

“La questione del consenso è sempre molto difficile da appurare, vale per i talebani e valeva anche per il precedente governo. A un anno dal ritorno al potere dei talebani il paese è in una profonda crisi, anzitutto economica, per via della scarsa capacità dei talebani di gestione della macchina amministrativa e dei rapporti complicati con la comunità internazionale, le cui scelte hanno contributo ad un crollo del PIL del 30-40%.

È importante ricordare che dal 2001 al 2021 tutte le strutture istituzionali si sono tenute in piedi grazie ai soldi occidentali: i donatori internazionali sostenevano con il loro denaro soldati governativi, insegnanti, medici e infermieri; quando i talebani hanno conquistato militarmente il paese i finanziamenti sono stati tagliati e le istituzioni non hanno più avuto il terreno sotto i piedi. Il paese è inoltre strutturalmente molto debole, ha seri problemi nel suo sistema sanitario ed economico, non risolti nei vent’anni precedenti.”

C’è qualche differenza tra i talebani del primo emirato (1996-2001) e quelli di oggi? In cosa si distingue la nuova generazione di militanti rispetto a quella precedente?

“Intanto c’è un elemento di continuità: gli esponenti della vecchia guardia, talebani che hanno contribuito alla fondazione del movimento nei primi anni ’90 del ‘900 e hanno una lunga militanza alle spalle; ora che sono tornati al potere rivendicano la loro resistenza e il fatto di aver riconquistato la sovranità, sconfiggendo le truppe straniere che hanno sempre considerato come occupanti. Il movimento però si è anche evoluto, come tutti i movimenti di guerriglia armata, sia nella sua strategia di comunicazione verso l’esterno, sia nella capacità di interloquire con gli attori diplomatici. È un movimento composito, che ha al suo interno diverse aree di influenza e posizioni su questioni molto dibattute, dal ritorno delle ragazze a scuola al tipo di rapporti da mantenere con l’occidente. È un movimento fisiologicamente in evoluzione, ma quello che forse i talebani non capiscono è quanto è cambiata anche la società afghana rispetto al primo Emirato: una società demograficamente giovane, che scalpita e ha aspettative diverse dal passato.”

Dal tuo punto di vista, come si risolve il conflitto tra la volontà di non lasciare soli gli afghani e allo stesso tempo quella di non fornire legittimità al governo talebano?

“È il nodo di fondo con cui ha a che fare tutta la comunità internazionale. Attori regionali come Mosca, Pechino, Teheran e Islamabad se la cavano chiudendo gli occhi sulla contrazione dei diritti umani e sulla repressione del dissenso, cercando di avere un rapporto molto pragmatico, realista; quanto alla comunità euro atlantica, essa si pone proprio questa domanda, una questione complessa anche dal punto di vista pratico: come far arrivare denaro ai ministeri afghani per aiutare la popolazione, considerando che questi ministeri sono tenuti anche da persone che si trovano sulla lista nera dei terroristi delle Nazioni Unite e del governo USA? C’è poi anche una questione di fondo che condiziona i rapporti dell’Occidente con i talebani, un elemento di natura simbolica: Washington e Bruxelles sono stati sconfitti militarmente e si tratta quindi ora di interloquire con chi li ha sconfitti. Un altro problema pratico è che, una volta dissipato il capitale diplomatico con l’accordo di Doha del febbraio 2020 e poi quello militare con il ritiro delle truppe, rimangono poche leve di negoziazione verso i talebani e una di queste è quella finanziaria: i talebani hanno bisogno di soldi, ancor prima di riconoscimento formale, e i fondi congelati servono come leva di condizionamento. “

Dall’agosto dell’anno scorso, quando è avvenuto un duro attentato terroristico fuori dall’aeroporto di Kabul, abbiamo sentito parlare di ISIS-K, gruppo terroristico locale affiliato dell’ISIS, che aveva rivendicato la responsabilità dell’accaduto. Gli attacchi terroristici e le violenze non sono cessate nei mesi successivi. Quali sono i motivi di ostilità e gli obiettivi di questo attore? ISIS-K vuole e può essere in grado di rovesciare il governo talebano?

“La provincia del Khorasan, branca locale dello Stato Islamico, ha una storia piuttosto datata: il primo ingresso in Afghanistan è avvenuto ufficialmente tra 2014 e 2015; sono seguiti anni di rapporti altalenanti con i talebani, che all’inizio hanno cercato di interloquire ma poi hanno capito che le loro agende non erano compatibili. La premessa da fare è che entrambi gli attori sono gruppi jihadisti, ma il loro jihad è inteso in termini molto diversi: i talebani hanno fatto un jihad dentro i confini nazionali afghani, per la liberazione del Paese da quelle che consideravano truppe di occupazioni. Invece lo Stato Islamico è un gruppo jihadista con ambizioni strategiche diverse, ovvero la riconfigurazione dell’intero assetto delle relazioni internazionali e la reinstaurazione del califfato, che dovrebbe riguardare l’intera umma islamica.

Lo Stato Islamico dice che quella dei talebani non è stata una vittoria, ma una sconfitta, perché ottenuta con mezzi illeciti come il dialogo e il rapporto con la comunità internazionale. Lo Stato Islamico cerca di approfittare delle difficoltà dei talebani, che devono affrontare la transizione da gruppo di guerriglia a gruppo di potere istituzionale, per reclutare i militanti scontenti che non hanno più un obiettivo chiaro, non hanno più nessuna battaglia da combattere. Altre operazioni condotte dallo Stato Islamico sono dimostrare che i talebani non sanno assicurare sicurezza a tutto il paese e alimentare le diffidenze all’interno delle varie comunità etniche del paese; in particolare esso colpisce la minoranza hazāra, che aveva già subito abusi e discriminazioni al tempo del primo emirato, oggi preoccupata dal ritorno al potere dei talebani. Per ora lo Stato Islamico non pone pericoli seri alla tenuta del governo dei talebani, ma combinato insieme ad altri ostacoli contribuisce all’instabilità dell’area.”

Abbiamo iniziato la nostra intervista con una domanda relativa ai tuoi viaggi e vorrei terminare allo stesso modo: sicuramente la tua mente sarà piena di immagini delle esperienze che hai vissuto; se dovessi sceglierne una, se dovessi scegliere un momento a cui hai assistito e che senti di poter condividere con noi, quale sarebbe?

“È molto difficile. Forse, al di là delle molte amicizie instaurate, sceglierei come ricordo principale le occasioni di cultura: c’è un limite nel nostro racconto da giornalisti e analisti, cioè quello di raccontare l’Afghanistan prevalentemente attraverso la cornice del conflitto militare. La guerra e le sofferenze sono state un aspetto sicuramente presente in questi vent’anni, ma la società vive anche quando c’è un conflitto. Ho assistito a raduni poetici e letterari, in genere di venerdì, in cui donne e uomini si riunivano per recitare, cantare e discutere le loro poesie con gli altri membri dei collettivi. Dentro questo paese che ha molto sofferto la guerra c’è una forte vocazione letteraria e poetica.”

Grazie ancora a Giuliano per la sua disponibilità e per averci aiutato a fare chiarezza su un tema di cui è fondamentale continuare a parlare.

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