The border inside the border – La storia di Ala

Ala mi ha raccontato la sua storia più di un mese fa, io la renderò pubblica ora, con questo articolo. Perché ora? Sarebbe stato veloce e indolore raccontare tutta la vicenda in una tranche sola, in modo da concedere al nostro cervello di metabolizzarla e farla scivolare lentamente nell’oblio.

In giro per la Polonia le persone preparano zuppe da portare al confine, con qualche prelibatezza in più per il periodo natalizio appena trascorso. Prelibatezza si fa per dire, dato che a un passo dalla morte tutto ciò che ci circonda prende improvvisamente valore, a partire dalla vita stessa.

Ala mi ha raccontato la sua storia più di un mese fa, io la renderò pubblica ora, con questo articolo. Perché ora? Sarebbe stato veloce e indolore raccontare tutta la vicenda in una tranche sola, in modo da concedere al nostro cervello di metabolizzarla e farla scivolare lentamente nell’oblio. 

Ora, ad un mese di distanza, per rinfrescare l’argomento e le difficoltà annesse, vi propongo la storia di Ala. Ala è un’attivista e testimone oculare del disastro umanitario che da circa sei mesi a questa parte si sta abbattendo sul confine tra la Polonia e la Bielorussia. 

“Alla fine di novembre sono andata al confine con alcuni amici, tra cui Iadviga. Alcuni conoscenti ci hanno contattato dalle zone vicino al confine in cui saremmo potuti andare per dare una mano, dal momento che non c’era alcun sistema sociale che si prendesse cura dei migranti. Questo si può dire, già si era capito, ed è il motivo per cui persone come me hanno deciso di recarsi al confine e provare ad aiutare. 

Io e Iadviga abbiamo deciso di prenotare un piccolo appartamento in un agriturismo vicino a Sokółka, uno degli ultimi villaggi a cui ci era concesso accedere prima della zona di emergenza e sempre lì vicino abbiamo avuto modo di fare le volontarie per una associazione del posto.

Come volontaria avrei avuto dei compiti e delle piccole “missioni” da svolgere, di solito di circa tre giorni. Le persone in questa aggregazione di volontari, di solito lavoravano una settimana per poi lasciare la zona. All’arrivo, soprattutto prima delle missioni, veniva accertata l’identità e la credibilità delle persone che si stavano mettendo a disposizione. Al mio arrivo, come di prassi, mi hanno chiesto quali fossero le mie capacità e quale tipo di lavoro avrei potuto svolgere: 

“Sei un medico? Sei un avvocato? Hai la macchina e la sai guidare? Sai cucinare? Hai capacità organizzative? Sai aiutare psicologicamente?”

Lavoravamo come in un’azienda: alcuni riempivano zaini con zuppe, medicazioni e qualche indumento caldo da portare al confine; altri portavano fisicamente gli approvvigionamenti nelle foreste dai più bisognosi o dove potevano essere necessari.

L’obiettivo, solo uno: salvare più vite possibili

La prima notte io Iadviga e altri volontari abbiamo provato ad avvicinarci al confine. 

Alle 10 di sera siamo arrivati, vagando nei boschi con la macchina.

Ora che rifletto con lucidità, riesco a dirti che erano circa sette chilometri tra noi e il confine: sul momento ero veramente impaurita di oltrepassare con la macchina la linea oltre la quale saremmo stati dei fuorilegge. Come ti ho raccontato, ci sono gravi sanzioni per chi supera il confine prima del confine, tra cui quella di andare in prigione nei casi più gravi. Se ci avessero trovati, nel migliore dei casi ci avrebbero portato alla stazione di polizia. 

Mentre guidavo attraverso la foresta, è spuntata una macchina della polizia dietro di me. Da dietro riesce a sorpassare la mia vettura in modo da mettersi davanti e bloccare il passaggio. Iadviga si mette addirittura a piangere dalla paura. Mi hanno chiesto di fermarmi e di scendere e fornire i miei documenti. 

Ti dico già, ci hanno lasciati andare senza storie. La polizia di notte gira nei boschi perché sa che ci sono dei volontari che vogliono aiutare i migranti e si vogliono assicurare che nessuno si diriga oltre il confine o ad aiutare illegalmente queste persone.

Alla luce del sole invece io e altri volontari andavamo di casa in casa nei pressi di Sokółka a portare risorse necessarie per la sopravvivenza. La cosa che mi ha colpita profondamente è che i residenti della zona erano talmente spaventati da non averci aperto nemmeno la porta di casa quando andavamo lì fuori per dare il nostro aiuto: abbiamo dovuto lasciare il nostro aiuto fuori le abitazioni dei cittadini.

All’inizio non capivo come mai avessero talmente paura di noi volontari da non aprirci la porta di casa. L’ ho capito qualche giorno dopo.

Il secondo giorno in cui abbiamo portato avanti questo tipo di missione, ci siamo fermati fuori una abitazione per chiedere se avessero bisogno di qualcuno che li aiutasse a pulire l’appartamento. 

Come ben sai era ed è stremante vivere in questi villaggi in questa situazione di emergenza, motivo per cui noi volontari volevamo fare tutto il possibile per aiutare i residenti, anche pulire le loro abitazioni. 

Le persone all’interno di questa abitazione erano talmente stremate che, per quanto avessero paura di noi volontari, ci hanno fatto entrare. Lì, di fronte a me, c’era il motivo concreto per cui quella famiglia era restia a farci accomodare in casa: una famiglia curda (marito, moglie con due bambini) nascosta e protetta illegalmente dalla famiglia polacca residente.

I residenti avevano paura che la nostra fosse una trappola e che con noi ci fosse la polizia pronta a perquisire la casa e arrestare la famiglia. 

Detto in breve, la famiglia polacca ha deciso di prendersi cura della famigliola curda dopo che l’ha trovata nella foresta quasi morente. Per fortuna c’è una legge polacca che non può essere contrastata nemmeno dalla polizia stessa: se un cittadino si imbatte accidentalmente in una persona che sta morendo, ha il diritto e dovere di salvarla e, di conseguenza, prendersene cura. I bambini, quando sono stati raccolti dal bosco, erano davvero in pessime condizioni.

Vicino al “nostro” confine c’erano dei punti precisi da cui raccogliere nuovi approvvigionamenti. I volontari si aggiornavano in continuazione tramite Whatsapp e altri social per scambiarsi le posizioni precise dei migranti nei boschi. I volontari medici esaminavano le condizioni delle persone, quando le trovavano, e nel frattempo altri volontari trovavano il modo di procurargli dei documenti validi per l’asilo. Purtroppo, era molto facile perdere i documenti durante il lunghissimo viaggio che queste persone facevano, tra la pioggia, le notti nei boschi e altre sciagure; quindi, se dei migranti venivano trovati in modeste condizioni di vita e non a rischio, facevamo di tutto per non farli rigettare in mezzo alla foresta. 

Prima di questa catastrofe umanitaria, se ti fossi aggirato di notte dei boschi, avresti potuto osservare gruppi di animali spostarsi da una parte all’altra: orsi, lupi che in gruppo cambiavano zona in cerca di cibo.

Ora al posto degli animali, o meglio, insieme a questi puoi imbatterti in gruppi di sfortunate persone, come è capitato a noi.

Immagina 20 persone, tutte vestite di nero, che molto velocemente corrono da una parte della foresta all’altra. Persone ridotte talmente male che io e Iadviga ci abbiamo messo un po’ prima di capire che fossero esseri umani e non bestie.

Dopo circa venti secondi, abbiamo visto passare davanti a noi un altro gruppo.

Subito io e gli altri volontari abbiamo ribaltato la macchina per vedere se avevamo cibo e vestiti da porgere a queste persone.

Possiamo fermarci per aiutarli? Sì, fermiamoci.

Ci siamo fermati perché, dopo esserci guardati intorno, abbiamo constatato che non ci fosse polizia intorno a noi. Abbiamo acceso le luci e siamo scesi dalla macchina.

Dopo pochi minuti, girandomi, ho visto che c’era qualcuno che ci stava adocchiando da dietro il tronco di un albero. Erano anche queste persone, tra cui un po’ di bambini.

Purtroppo, non erano le uniche persone intorno a noi. 

Alcuni uomini della polizia ci stavano raggiungendo, così chiedo ai migranti nascosti, specialmente ai bambini, di fare silenzio per un attimo. Be quiet.

Cosa state facendo qui? – ci grida la polizia

Ora potete immaginare me, in quel frangente di panico. Io tra l’incudine e il martello, dove l’incudine sono un gruppo enorme di persone in difficoltà – che dovevano eclissarsi in un profondo silenzio per non farsi scoprire – e la polizia, il martello, a cui dovevo fornire spiegazioni.

Non siamo del posto, ci siamo persi – affermiamo io e gli altri volontari.

Bene, fate attenzione – ci dice la polizia – perché ci sono delle persone cattive nella foresta.

Il punto più divertente di questa vicenda è il seguente: io ho dei tratti molto caratteristici dell’Europa del Nord, tra cui capelli biondi e occhi molto chiari. Iadviga invece, mia amica e volontaria, sembra una ragazza dai tratti tipici mediterranei: capelli molto scuri, occhi neri.

Scusami ma tu sei polacca? – chiede la polizia riferendosi a Iadviga.

Sì, perché non dovrei esserlo? – risponde lei.

Dobbiamo controllare – continua la polizia.

Solo dopo che le hanno controllato i documenti si sono convinti che fosse polacca, forse anche perché la mia amica padroneggia la lingua polacca in maniera impeccabile.

Dopo di che hanno iniziato a perquisire la macchina.

È bastato qualche passo oltre la mia macchina per trovare nascoste le persone che noi volontari stavamo cercando di proteggere. 

Con i fucili in mano, nel bel mezzo della foresta, hanno preso di forza otto persone dal gruppo. Persone che di forza hanno fatto salire in macchina per trascinarle non si sa dove, probabilmente fuori dal confine polacco.

Go on, quickly, we don’t have time”

E noi, invece, abbiamo tempo solo per noi stessi e non abbiamo energie per istruire le nuove generazioni a non fare del male al prossimo, e trattarlo con clemenza se si trova in difficoltà.

Siamo umani senza umanità.

Scusaci Ala.

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