Giovani e fannulloni. Confermare o ribaltare

Perché si dice che i giovani “preferiscono fare il weekend piuttosto che lavorare”? È un fenomeno sempre più lamentato da ristoratori ed imprenditori come Borghese e Briatore. Guardiamo un po’ di numeri e cerchiamo di farci un’idea.

Nelle scorse settimane è tornato alla ribalta l’annoso, e ampiamente dibattuto, tema della qualità del lavoro in Italia e con esso le sempre costanti polemiche che lo accompagnano. A rilanciare la discussione sono state alcune dichiarazioni del noto chef Alessandro Borghese, che lamentava l’incapacità di trovare lavoratori stagionali per i suoi ristoranti, e quelle appena susseguenti di Flavio Briatore il quale, sostenendo le ragioni di Borghese, affermava che i giovani “preferiscono fare il weekend piuttosto che lavorare”, rinsaldando quell’idea socialmente diffusa che le giovani generazioni siano composte in larga parte da fannulloni non in grado di adattarsi alle logiche del mercato e preoccupati più di rivendicare i propri diritti che di mettersi in gioco accettando sacrifici di valore formativo ed educativo.

Vox popoli, vox dei” si diceva una volta, tuttavia la tendenza ad elevare la propria esperienza personale a fenomeno generale rappresenta uno dei principali e più preoccupanti elementi che influenzi le dinamiche di composizione delle opinioni e di conseguenza ciò che ne discende, ivi incluse le posizioni politiche e successivamente elettorali; sono queste le cardinali ragioni che rendono necessaria un’analisi della problematica che parta da dati macroeconomici e che da essi ne faccia discendere una panoramica esaustiva.

Il primo dato interessante, ampiamente conosciuto, riguarda il tasso di variazione dei salari in Europa nel trentennio 1990-2020; se alcuni paesi europei hanno assistito a crescite a tre cifre (i paesi baltici segnano addirittura valori oltre il 200%) paesi con economie maggiormente assimilabili a quella italiana, come la Spagna, toccano valori pari al +6,2% e ancora altre realtà come Francia segnano +31,1% e Germania +33,7%; l’Italia è il solo paese ad esplorare il territorio negativo, segnando un preoccupante -2,9%: per farla semplice, ammettendo di mantenere per 30 anni la medesima condizione professionale, ci troveremmo al trentesimo anno a guadagnare meno del nostro primo giorno di lavoro.

Chi pensa ancora oggi all’economia italiana legandola al mito di un imperituro boom economico anni ’50-’60 ignora, o finge di ignorare, che quella straordinaria espansione si resse su alcuni “espedienti” che finirono per drogare il sistema e tra questi un sistematico ricorso a pratiche economiche evasive e/o elusive (che fossero legate ai tributi o al lavoro nero), la quasi totale assenza della condizioni di sicurezza e salubrità sui posti di lavoro e al bassissimo costo del lavoro, reso possibile da una disoccupazione post guerra alle stesse e dalla debolezza delle organizzazioni sindacali dell’epoca.  

Cosa dunque rendeva accettabile per i nostri nonni e i nostri genitori condizioni lavorative del tutto simili a quelle rinvenibili oggi nei paesi in via di sviluppo? La risposta è facilmente individuabile in elementi sociologici ed economici quali l’estrema povertà in cui versava larga parte del paese (che fino ad allora era prevalentemente basato su un’economia agricola) e nell’amplissimo divario tra domanda di lavoro (inferiore) e offerta di lavoro (superiore); in poche parole, o finivi in indigenza o accettavi le condizioni di ingaggio. Tuttavia, queste condizioni di ingaggio nascondevano una promessa neanche tanto velata: l’economia cresce e tu crescerai con essa; chi accettava quelle condizioni sapeva che avrebbe avuto la ragionevole aspettativa in trent’anni di vedere largamente migliorata la propria posizione reddituale e sociale, di ambire a quel “benessere materiale” che la stessa Costituzione della Repubblica cita all’Art. 4 quale conseguenza del diritto al lavoro.

La variazione positiva annua dei redditi in Italia è stata costante in pieno boom ed è durata per oltre 25 anni, con picchi tra il 1959 e il 1962 dove la percentuale di crescita si attestava vicino (o sopra) ad un valore del 6%; questi numeri sono bastati da sé a rendere tollerabile quello che a partire dagli anni ‘90 (dove trent’anni dopo ti saresti ritrovato più povero di quando hai iniziato a lavorare) è diventato in parte o del tutto inaccettabile; insomma, quando le generazioni più mature raccontano il boom economico come una sorta di eldorado dove il lavoro era veicolo per le grandi soddisfazioni della vita, dall’acquisto della prima casa fino alla vacanza in riviera, passando per la Fiat 500 per arrivare all’accesso all’università dei figli, hanno buone ragioni di farlo: si è trattato di una stagione economica oggi irripetibile e certamente non più riproponibile se non nel lungo periodo e attraverso la mutazione di condizioni micro e macro che oggi tutti considereremmo inaccettabili quali il peggioramento delle condizioni di sicurezza del lavoro, la riduzione di potere contrattuale delle organizzazioni sindacali o ancora la mancata contribuzione al benessere e ai servizi della comunità.

Fatte queste premesse macroeconomiche, ha davvero senso per un giovane di oggi accettare un lavoro tendenzialmente sottopagato, quasi sempre a tempo determinato e molto spesso al nero o con limitate garanzie previdenziali ancora di più con il rischio elevatissimo che tra trent’anni la sua situazione sia peggiore che oggi? La risposta è semplice ed immediata, oltreché negativa fatto salvo per chi non abbia nessuna condizione di tutela, parziale o totale, sul piano patrimoniale. Insomma, se nonni e genitori non ci hanno lasciato da parte qualche risparmio, la nostra situazione non è poi così dissimile da quella di 50/60 anni fa e non stupisce che siano ora gli immigrati, che di per sé rappresentano la fascia di popolazione più fragile sul piano patrimoniale, i più predisposti ad accettare lavori oggi non più graditi alla stragrande maggioranza degli italiani e condizioni professionali non certo desiderabili; sono cambiati i ruoli dei protagonisti e si è “attualizzato” lo scenario esterno ma le dinamiche rimangono tendenzialmente le stesse.

Resta dunque oggi il problema fondamentale di come sanare quel mismatching esistente tra la domanda di lavoro e l’offerta e garantire alle nuove generazioni le doverose condizioni di benessere e futuro che meritano; in primo luogo ridurre, in un paese a larga vocazione manifatturiera, quel pregiudizio che vede nel taglio del costo del lavoro la principale via alla profittabilità e, secondariamente, ricostruire un flusso coerente tra istruzione scolastica e formazione professionale da una parte e mondo produttivo e stili di governance di impresa dall’altra, tantopiù in un sistema economico dove anche il completamento del ciclo di istruzione universitario non trova adeguata capacità di essere assorbito da un tessuto di piccole e medie imprese ben diverso da realtà come Francia e Germania.

Concepire il lavoro, tanto da parte dei lavoratori quanto da parte delle imprese, come reale strumento per accedere all’ascensore sociale è dunque, prima ancora che una priorità economica e politica, un dettame costituzionale. La sfida italiana passa attraverso un rinnovato patto generazionale e una più marcata attitudine delle imprese a concepire, anche attraverso la transizione digitale e la transizione ambientale, un nuovo umanesimo economico dove il lavoro risulti un fattore incentivante e non limitante.

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