Ieri si è svolta la festa del primo maggio con il consueto concerto nel rispetto delle norme Covid19 e con uno slogan che richiama in maniera chiara il periodo storico che da oltre un anno stiamo attraversando: “L’Italia SI cura con il lavoro”.
Il legame inevitabile tra lavoro ed emergenza socio-economica in atto rende utile una seria riflessione: riflessione che qui vuole solo essere avviata, lasciando spazio per gli opportuni approfondimenti e aprendo anche a tutti coloro che vorranno, attraverso la nostra piattaforma “L’Imprenditoriale”, fornire un contributo costruttivo al dibattito, portando esperienze reali e concrete che spesso non trovano espressione sui media tradizionali.
Personalmente non so se il lavoro possa essere considerato realmente una cura per l’Italia, ma sono sicuro che il lavoro sia un indicatore dello stato di salute del nostro Paese o meglio dello stato di salute della condizione socio-economica del nostro Paese.
Un indicatore perché il livello di occupazione, che già prima della crisi aveva manifestato delle vulnerabilità, oggi più di prima rappresenta dal lato economico uno strumento per misurare la reale ripresa e ripartenza dell’economia e dal lato sociale lo strumento per misurare il grado di coesione sui territori. A ciò si deve aggiungere come il lavoro rappresenti anche un importantissimo strumento per misurare la capacità di un Paese a innovare ossia a modificare il proprio sistema produttivo, andando incontro a quei cambiamenti che i tempi rendono necessari. Su questo punto merita da subito mettere in evidenza come l’innovazione che può esprimersi anche attraverso il lavoro debba però portarsi dietro anche un cambiamento nei sistemi legati alla fiscalità, alla ridistribuzione della ricchezza, all’education lungo tutta la filiera formativa, ai sistemi di welfare e infine ai processi di uscita dal sistema lavorativo con adeguati strumenti pensionistici.
Insomma, parlare di lavoro e richiamare l’attenzione sul lavoro va benissimo – anzi oggi data la crisi è anche doveroso – ma affrontare il tema del lavoro in maniera responsabile e seria significa analizzarlo in una prospettiva sistemica comprendendo all’interno del sistema anche i temi richiamati della fiscalità, del welfare, della formazione (anche scolastica e accademica) e delle pensioni. In termini aziendali si potrebbe dire che si rendono necessari una visione ed un approccio al tema lavoro per processo potendo seguire i cosiddetti Life Event Episodes (LEE), ossia l’intero ciclo di vita di un individuo da quando entra a scuola fino a quando va in pensione.
La globalizzazione, da un lato, e la digitalizzazione, dall’altro lato, impongono di ripensare il valore del lavoro in primis e l’organizzazione dello stesso subito dopo. In questa direzione la pandemia ci ha insegnato come si possa lavorare in maniera diversa da come eravamo abituati precedentemente. Ed è indubbio che in questi mesi l’organizzazione del lavoro, anche attraverso l’obbligato impiego della tecnologia, abbia subito un’accelerazione nel proprio percorso di cambiamento: accelerazione che non deve essere trascurata, ma deve rappresentare un’opportunità per migliorare un sistema che forse in Italia per troppi anni è stato rigido e in parte statico.
Se cambia l’organizzazione del lavoro deve però cambiare la fiscalità intesa come leva di ridistribuzione della ricchezza insieme al sistema di welfare e insieme al sistema di uscita dall’operatività lavorativa. Il lavoro, infatti, non può perdere l’importante funzione che ha svolto per decenni nella nostra società di motore di crescita sociale ed economica non solo dei singoli, ma soprattutto del sistema intero e dei sistemi territoriali.
Il lavoro deve tornare a svolgere la funzione di “ascensore sociale” fondato sul merito e sulle competenze. Un sistema socio-economico sano fondato sul lavoro come leva di crescita è un sistema che valorizza il merito, la necessità di competenza e che insegna e guida i giovani orientandoli verso le scelte che determineranno il loro futuro professionale e personale. Futuro che impatterà anche sui luoghi in cui vivranno, in cui produrranno ricchezza e sulle relazioni che manterranno con le generazioni che li hanno preceduti.
Insomma, impariamo a guardare al lavoro non contrapponendo presunti interessi diversi, ma diamo al lavoro la centralità che merita in un sistema pronto ad innovarsi e a cambiare determinando un cambiamento anche alle dimensioni della fiscalità, del welfare e delle pensioni: la centralità del lavoro rappresenta la centralità dell’individuo donna o uomo.
Mi piace concludere questo breve editoriale ed aprire il dialogo al contributo di tutti ricordando alcune parole di Adriano Olivetti nel libro “Il mondo che nasce”. Libro che raccoglie dieci scritti in cui Olivetti parla di dignità, di persone, di conoscenza, di comprensione profonda dei valori della cultura, di responsabilità dell’impresa verso i lavoratori e l’ambiente e dove sottolinea come la scienza, la tecnologia e l’economia sono strumenti al servizio dell’uomo e non strumenti che si servono dell’uomo.
Nel libro “Il mondo che nasce” Adriano Olivetti in occasione della cerimonia di presentazione di un nuovo calcolatore afferma che “una macchina seppure tanto diversa dalle altre che la nostra industria ha prodotto nella sua semisecolare esistenza, è come quelle create dall’uomo per servire l’uomo, per liberarlo, col frutto della sua stessa fatica, dall’antica fatica di alcune più dure e inerti prove, per dargli altro campo d’affermare la sua vocazione e di costruttore: per uscire infine – con strumenti e obiettivi nuovi – nuove, più degne e suggestive possibilità di lavoro. Dobbiamo ora proseguire su questo cammino, non agevole – certo – ma che si illumina in una prospettiva grandiosa impegnandoci su un più vasto fronte morale e materiale, in una più vasta integralità di motivazione e di intenti.” Queste parole furono pronunciate da Adriano Olivetti l’8 novembre 1959 a Milano alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Oggi più di prima abbiamo bisogno di un sistema che sappia servire l’uomo per liberarlo grazie alla sua fatica dalle numerose fatiche cui ancora oggi è sottoposto: questo sistema si chiama progresso e per essere credibile il progresso deve essere inclusivo e non esclusivo.
Molti ci ricordano in questi giorni il dettato della nostra Carta Costituzionale ma ciò che non sempre viene messo in evidenza è la necessità di costruire.
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